V° incontro di r-a febbraio 09

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Ricerca-azione di formazione all’Istituto Aldrovandi Rubbiani

Sull’educazione alla laicità nella scuola

Anno scolastico 2008/2009

 

 

 

 

 

V° incontro Martedi 24 febbraio 2009

 

Presenti

 

Piero               Psicologia delle comunicazioni

Bruno              Diritto

Giusi                ricercatrice esterna

 

 

Tematiche affrontate:

 

   Motivazione all’insegnamento e implicazione

- Le “competenze” emotivo-relazionali 

- Il modello cognitivo in educazione

- La condivisione partecipata dei problemi educativi

 

Bioetica e laicità


- Eluana

- Il tabù della morte

           

    La parcellizzazione del sapere


      - La formazione all’insegnamento

      - Saper-essere e saper-fare

 

 

Non siamo in un periodo di intense attività scolastiche: gli scrutinii si sono chiusi, gli insegnanti svolgono in queste settimane un lavoro di regolare attività senza eventi eccezionali  e impegni come assemblee, consigli o incontri con i genitori, nonostante tutto oggi  siamo solo in tre.

I due insegnanti presenti all’incontro sembrano particolarmente predisposti al dialogo.

 

 

 Affrontiamo subito il problema più emergente: quello della

 

Partecipazione e implicazione

 

Bruno  ha una sua idea riguardo a questa difficoltà. Pensa che gli insegnanti in generale e non solo in questa scuola, al novanta per cento non abbiano nessun interesse ad andare ad analizzare  le difficoltà e i disagi vissuti nella scuola, per Bruno capire il perchè si vivono certe situazioni, non interessa a nessuno, comporta dei rischi, vuol dire mettersi in discussione.

 

Bruno: -  Nessuno vuole veramente trovare delle soluzioni. Quello dell’insegnante è un modus vivendi legato ad una sopravvivenza, il discorso è “ Io devo lavorare, mi trovo in questa situazione, cerco di sopravvivere e non voglio più di tanto cercare di capire, andare a spiegare, trovare soluzioni, confrontarmi.”

La gente non ha voglia di mettersi in gioco. Lo status quo, la passività mentale che regna dappertutto, regna anche in questo tipo di lavoro, anzi soprattutto in questo lavoro, altrimenti la sindrome del burnaut non sarebbe così sviluppata soprattutto nella categoria dei docenti.

Il fatto di lavorare a fianco di fasce più giovani come gli studenti, dovrebbe vitalizzare e motivare gli insegnanti, invece sembra che sia uno dei motivi di depressione maggiore, proprio il confronto con la velocità dei tempi di cambiamento della società, il trovarsi a  scontrarsi con generazioni in continuo mutamento.

 Questo lavoro è ambiguo perchè ti permette di sopravvivere dal primo all’ultimo giorno, finchè non si va in pensione. Se si vuole, si può lavorare esclusivamente col primo libricino che capita, ed ogni anno ritornare sulle stesse sottolineature e parlare della preistoria, del diritto, delle equazioni. Per un pò ti va bene poi dopo ti avvilisce, anche quest’anno si deve venire qui e raccontare del paleolitico, del neolitico...Per non deprimersi bisognerebbe mettersi in gioco, trovare nuove modalità, nuovi stimoli, capire il perchè si sta in un contesto scolastico, il vero motivo è solo lo stipendio, o c’è anche una voglia di mettersi a disposizione per aiutare a crescere, a evolvere, a imparare trovando delle forme, delle modalità che servano a rigenerarsi? Non mi sembra che tra gli insegnanti, e non solo qui alle Aldrovandi, ci sia questa voglia di mettersi in gioco.

 La scuola è un luogo in cui formalmente sembra lavorino persone con una visione cosiddetta progressista, nei fatti invece è uno dei luoghi di maggiore conservazione mentale, c’è questa contraddizione molto forte.

 

Piero: - Io condivido quello che dici, ma in parte differisco dalla tua idea.

Queste intere generazioni all’interno della scuola, dai più giovani ai più vecchi, hanno una comune incompetenza, hanno un’incompetenza emotiva e relazionale. Gli insegnanti più giovani sembrano essere ancora più incompetenti  dei vecchi a questo livello emotivo-relazionale. La maggior parte di loro crede che fare l’insegnante voglia dire entrare in una classe e fare lezione senza alcuna ricerca di metodi per la relazione. Questo è un problema che io riscontro nella scuola italiana, perchè la nostra è una scuola che ha origine dal modello dei gesuiti, un modello religioso basato su una forma di indottrinamento. La scuola italiana è stata istituita prima che pubblica, privata, dai gesuiti, di cui poi lo Stato si è riappropriato. Si tratta di gestire questo modello di tipo cognitivo. Questa cognitività all’inizio può sembrare utile, ma nel momento in cui l’insegnante riscontra l’indifferenza dello studente, allora lo identifica come incapace e pensa che sia lì la causa di questo inapprendimento, qui nasce la prima problematica.

Poi per quanto riguarda le motivazioni, penso che ci sia la maggioranza di insegnanti che fa questo lavoro “per dovere”, e questo è già un bene, perchè presuppone un certo senso di responsabilità. Ma  è un freddo dovere, nel senso di andare in classe e ripetere, non nel senso di compiere un’ "azione", gli appassionati sono pochi. Questa scarsa passione la si trova i tutti gli ambiti lavorativi. La drammaticità è questa. A me non  piace ripetermi sempre, ma cercare nuove forme per dire le cose, arricchire le mie conversazioni con gli studenti.  Un tempo avevo dei dirigenti che mi riprendevano perchè uscivo dal seminato. All’inizio insegnavo diritto commerciale, ma avendo una cultura umanistica più che giuridica, mi soffermavo sugli aspetti storici, sociali, si trattava di relazioni private che venivano istituzionalizzate.

Il legislatore ha concepito la scuola come un’ istituzione della repubblica, con il suo consiglio, con la sua autonomia, improvvisamente su questa istituzione è calato l’intervento dell’esecutivo. La cultura è quella dell’impiegato ministeriale, non quella del magistrato che elabora la soluzione a dei casi. Io sono di fronte a dei “casi” di riflessione, di conoscenza, di coinvolgimento. Gli insegnanti si concepiscono come dei tecnici-burocrati.

 

Giusi: - Bisognerebbe riuscire a fare chiarezza tra diversi ordini di problemi, perchè li vediamo accumularsi tra loro confondendosi:

 

1)

  • Com’è concepita la scuola dagli insegnanti e com’è il visto il sistema dell’educazione, con tutto quello che comporta al suo interno: istruzione,  didattica, relazione pedagogica.
  • Chiedersi cosa vuol dire “educare”, tornare alle origini delle motivazioni al lavoro dell’insegnamento e cercare di capire come l’insegnante si pone di fronte all’ "azione educativa".
  • Partire dunque ciascuno dalla propria educazione, che educazione ho ricevuto io per poterla trasmettere migliore agli altri? Quanto più ha ben presente il discorso e il senso sull’educazione scolastica e informale, quanto più l’insegnante ha chiara l’importanza del suo ruolo, tanto più si manifesta l’aderenza del suo essere al suo agire, tanta più passione investe nello svolgere il suo insegnamento. Quanto meno è presente nell’insegnante la coscienza del suo ruolo educativo, quanto meno ha coscienza dell’importanza del suo insegnamento, tanto meno sarà motivato a migliorare le sue azioni e tanto meno investirà energie e passione nel suo lavoro. Comprendere tutto ciò necessita un percorso di comprensione della formazione personale di ognuno.

2)

  •       La comunicazione. Gli insegnanti non comunicano, si fa fatica a rapportarsi reciprocamente, sia in una dimensione allargata nella scuola, sia all’interno di un gruppo, una microsituazione come questa. Il gruppo può definirsi tale solo se esiste comunicazione al suo interno, altrimenti è un’entità costitutita a priori che senza comunicazione e condivisione non ha ragione d’essere. Il segnale della coesione del gruppo e quindi dell’esistenza del gruppo stesso è la comunicazione. Credo che si tratti di una mancanza di abitudine ad agire in determinate dinamiche collettive di partecipazione diretta.

 

Piero: - Nella dinamica dell’apprendimento sono in gioco due figure: il docente e lo studente. Ma non sono solo loro in gioco, c’è anche la società, i genitori. La televisione è il modello prevalente della comunicazione nel mondo occidentale. Se vado a vedere l’organizzazione della comunicazione in Germania, cito un caso che conosco, la televisione trasmette delle conversazioni che non diventano chiacchiera. Si affrontano delle tematiche e si approfondiscono tra i partecipanti, senza bisogno di esperti, il popolo produce il sapere. Quando ho sperimentato un dibattito aperto su alcuni argomenti con una classe, una IV dell’indirizzo turistico, che è una classe difficile,  gli studenti hanno rifiutato la costruzione di un sapere collettivo, volevano la  chiacchiera. Sembra che l’intero mondo sia una chiacchiera. Ci vogliono luoghi di dibattito aperto dove  possa esprimersi il pensiero di chiunque su un argomento senza che questo si banalizzi e perchè il livello e la qualità del discorso si alzi  tra le persone coinvolte, c’è bisogno di “esperti”, ma non in senso assoluto naturalmente, la società deve riconoscere gli esperti, sempre relativizzando questa definizione. Si tratta di valorizzare le esperienze,  di fare interagire dei saperi..

Quando Walter Benjamin vedeva evolversi la società americana, negli anni ’30, diceva che ciò che distrugge la cultura è “la chiacchiera”.

 

Eluana -  la bioetica – la morte

 

Mettiamo ad esempio che decido di affrontare con la classe il caso di Eluana. Se dico che ognuno di noi ha una sua cultura della morte, i ragazzi si rifiutano di affrontare il discorso in termini scientifici o filosofici. Staccare la spina non vuol dire essere dei mortiferi, dobbiamo accettare le diverse visioni del vivere e del morire. Emerge la paura nei ragazzi, una grandissima compassione, ma anche paura di restare vittime della legge che permette di staccarmi la spina, non ci si fida dei medici per la paura che ci se ne approfitti per la vendita di organi!

Abbiamo parlato della biologia umana. Abbiamo detto che esistono tre sistemi: il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema immunologico. Quando essi sono collegati tra di loro danno vita ai sensi, alle relazioni, attività soggettiva, attività cosciente, diversa dall’attività vegetiva. A livello della neurologia non si conoscono  casi in cui dopo tre anni ci sia stato un ritorno alla riattivazione tra i tre sistemi. La corteccia celebrale, in Eluana, dopo diciassette anni, si era staccata dall’encefalo, viveva solo il sistema vegetativo limbico.

 

Giusi: - Ci si deve confrontare con chi pensa che la vita non sia solo relazione, ma che possa definirsi tale anche  la vita ridotta al solo respiro...-

 

Piero: - Il respiro della vita di cui si parla per esempio in oriente non è solo respiro è consapevolezza, non si deve avere nemmeno l’idolatria della vita...-

 

Giusi: -  C’è chi  obietta che come non si è liberi di scegliere di nascere, non si è liberi di scegliere di morire.-

 

Bruno: - Le cose non possono essere racchiuse tutte all’interno di uno stesso sistema di valutazione, bisogna lasciare la libertà di scegliere, questo discorso del non avere diritto alla libertà di scelta può essere portato avanti fino ad esasperarlo, dobbiamo chiederci se la comunità può limitare all’individuo questa libertà vitale perchè ritiene che  questa libertà poi può avere delle implicazioni negative sul gruppo stesso .-

 

Piero: - Mettiamo che sono un medico o uno psicologo e al pronto soccorso mi arriva un caso di una persona che ha tentato il suicidio, io ho l’obbligo di soccorrerlo, di salvarlo e se lui riprova ad uccidersi, io lo risalvo un’altra volta, finchè non muore definitivamente. Ma il caso di Eluana non ha a che fare con il salvare una vita, lì la vita, la vita di relazione, la vita psichica non c’è più.

 C’è la concezione che considera la vita anche nel suo stato vegetativo, ed ha il suo diritto di esistere, chi vuole dovrebbe poter firmare e decidere di non farsi staccare la spina finchè non muore. Noi oggi abbiamo una realtà biologica, una realtà psichica ed una realtà tecnologica, la nostra è una realtà “bio-psico-tecnica”, dunque questa macchina a cui si sta attaccati determina delle compressioni di queste tre dinamiche, crea un problema agli aspetti biopsichici, agli aspetti relazionali. Ci sono dei casi in cui la macchina viene in aiuto di queste altre dinamiche biopsichiche, come quell’atleta che ha le gambe meccaniche e che vive normalmente e anzi ha delle prestazioni sportive migliori di prima. Dunque se rimangono anche solo delle minime possibilità di vità relazionale, anche solo parlare con gli occhi, o se non posso parlare con gli occhi io possa almeno ascoltare, allora vale la pena sopravvivere...-

 

Giusi: - Qual’è quindi il limite minimo valutabile e definibile come “vita”?

 

Bruno: - La differenza sta nella volontà di decidere per tutti o nella possibilità di lasciare a ciascuno la scelta . –

 

Piero: - E’ come nel discorso del divorzio, o dell’interruzione di gravidanza,  si sono scontrati il mondo laico e il mondo cattolico, ecco io sono favorevole al compromesso tra laici e cattolici, tra coloro che credono e coloro che non credono. Quando c’è solo vegetatività, io personalmente sceglierei di andarmene. C’è un film meraviglioso, canadese, in cui il protagonista, malato terminale di cancro organizza una grande festa con tutti gli amici che quella sera, circondandolo della loro presenza, lo accompagnano alla morte.

Deleuze aveva un  tumore ai polmoni e si è sparato.

 

Giusi: - Il discorso del suicidio è stato appena sfiorato in questi incontri e sembra essere un argomento tabù per quanto riguarda il lavoro con classi, c’è una certa reticenza a pensare di affrontare questi argomenti con gli studenti. Ma parlare di laicità implica necessariamente fare i conti con il discorso sulla vita e la morte. Il discorso giuridico è conseguenziale alla riflessione esistenziale. Abbiamo una visione della laicità più legata al politico e al sociale. Mentre dichiararsi laici vuol dire avere già intrapreso un percorso di riflessione individuale su alcuni concetti chiave dell’esistenza. Dunque la morte rientra a pieno titolo nel  dibattito sulla laicità, se si riuscisse a parlarne apertamente non sarebbe più un tabù, ma piuttosto diventerebbe oggetto di riflessioni, si riuscirebbe a prendere maggiormente le distanze da concetti rigidi di tipo morale o religioso. La religione, nella sua rigidità non si preoccupa di parlare di morte, perchè alla morte ci pensa Dio. La laicità rappresenta dunque quella libertà d’approccio al discorso dell’esistenza che la religione non permette.

 

Piero: - Se la laicità non è una religione, cioè non è un dogma, allora sono ammesse all’interno del discorso laico tutte le opinioni, anche quelle religiose, sono tutte verità relative, anche quelle religiose possono esistere ma in un discorso di “com-prensione”, la laicità è la compresenza di più punti di vista. Se io dico che non si può divorziare, affermo una verità dogmatica che non accetta altri punti di vista, se invece affermo che è possibile divorziare, o piuttosto interrompere la gravidanza, non obbligo nessuno a farlo, ma lascio margini di possibilità a tutti. Lo stesso vale per il testamento biologico. Esistenza vuol dire essere al mondo e progettare nel mondo.

Quando ho lavorato con dei malati mentali in un piccolo gruppo-appartamento, accadeva questo: loro non erano in grado di stare al mondo in piena libertà, ma noi li mettevamo nella condizione di progettare sè stessi nella libertà. Neanche un bambino sa bene cos’è la libertà, ma lo si aiuta ad essere libero, lo accompagno nella libertà. Però essere al mondo significa sia venire al mondo, ma anche andarsene dal mondo.

 

Giusi: - C’è una grande difficoltà ad affrontare questi argomenti a scuola -

 

Bruno: - La morte è il grande tabù dell’umanità, ancor più per degli insegnanti che hanno una visione limitata.

 

Piero: La scuola è piena di insegnanti che non sono che dei tecnici: ognuno è qui per insegnare la sua materia. In una società tecnocratica, gli insegnanti sono qui per insegnare delle tecniche.

 

Giusi: - Quali possono essere in fondo, le cause che hanno generato questo stato di cose?

 

La parcellizzazione del sapere e la formazione all’insegnamento -  saper-fare e saper-essere

 

Piero: - Il mercato ti chiede di fornire dei tecnici.

 

Giusi: - Si può riuscire a non piegarsi alle leggi del mercato, a quella frammentazione disciplinare, a quella parcellizzazione del sapere? Qual’è la fonte di questo asservimento, da dove nasce? Nasce da una formazione così strettamente legata al mercato, dove non c’è una prospettiva più ampia dell’azione educativa? C’è anche un totale abbandono della propria formazione al mercato del sapere. L’essere critici ed abbracciare il sapere in senso lato mette in difficoltà dei modelli.  Si ritiene più semplice ridursi a svolgere quello che strettamente è previsto dal proprio ruolo di insegnante? Questa “diseducazione” delle nuove generazioni non porta alla conoscenza, perchè non porta al confronto leale, diretto e aperto tra punti di vista, non porta alla visione critica delle cose, con grandi vantaggi per chi svolge un ruolo di potere nella società. Secondo me non c’è l’abitudine a porsi domande. Io non conosco nei dettagli la  formazione per l'abilitazione all’insegnamento che viene svolta dalle SSIS e non so quali sono le motivazioni all’insegnamento che vengono valutate idonee per lo svolgimento della professione.

Rintracciare il proprio percorso di formazione e metterlo per iscritto può servire a rintracciare il proprio saper-fare e a verificare la sua coincidenza con l’essere. Da qui ne deriva una maggiore coscienza dell’attività educativa che svolgiamo. Rintracciare le vere motivazioni che ci hanno condotto in questo luogo con questo ruolo. Se è vero che l’insegnamento è un’attività educativa, allora è indispensabile prendere coscienza della propria formazione, del proprio vissuto, per poter dar forma ad un obiettivo educativo che riusciamo a quel punto ad intravedere.

A volte sento parlare qui di “gruppo classe”. Il termine mi sembra lontano da un approccio di vera relazione maestro-allievo, che è la relazione pedagogica. Il termine “gruppo classe” designa un’entità collettiva, ma anonima, mentre valorizzare le individualità nella relazione pedagogica presuppone quel percorso personale di presa di coscienza delle vere motivazioni all’attività di insegnamento.

Scrivere d’altra parte dovrebbe essere lo strumento del lavoro dell’insegnante, non dovrebbero esserci delle grosse difficoltà a tracciare per iscritto a grandi linee una biografia di formazione.

La scrittura è ciò che segna la differenza tra il pensare ed esprimersi in modo coerente. Da la possibilità di elaborare il pensiero e produrre nuove riflessioni. Io credo che il discorso della lacità abbia fortemente a che fare col vissuto formativo, è per questo che insisto molto sulla biografia di formazione in questo gruppo di ricerca

 

 

Piero: - Io sono qui perchè ho fatto due concorsi: uno sulle discipline giuridiche e uno sulle discipline sociali e filosofiche. La mia valutazione è stata tutta nozionistica,  sono stato valutato sulla base di nozioni. Così come si pretende da me che io sappia a memoria delle nozioni, ci si aspetta così che io trasmetta delle nozioni. Io non metto in discussione le tecniche, il “saper fare”, le trovo indispensabili, ne abbiamo veramente bisogno, ma devono assere accompagnate da altre competenze.

 

Giusi: - Quello di cui parli è infatti il saper-essere insieme al saper-fare. Perchè fare senza saper essere equivale a non essere nè consapevoli, nè motivati verso ciò che si fa, di conseguenza vuol dire non saper fare. Credo che la consapevolezza, la motivazione e la passione, siano presupposti per il saper-fare, a prescindere da quello che si  insegna.

 

 

Bruno: - Io personalmente ho alle spalle una formazione prima sociologica e poi giuridica. La mia formazione sociologica però è sempre prevalente nell’approccio con la realtà.  Io rilevo una piccola grande verità e naturalmente questo riguarda tutta l’umanità, noi esseri umani siamo delle entità economiche, guardiamo lo sforzo e il risultato, se con il minimo sforzo riusciamo ad ottenere dei risultati, il resto non importa, se con il mio lavoro riesco a guadagnarmi lo stipendio, ho già ottenuto dei risultati. E’ un fatto antropologico. Quando l’uomo si è accorto che anzichè rincorrere gli animali poteva fare un recinto e allevarli, quando ha scoperto che poteva coltivarsi il suo campo invece di andarsi a cercare terreni fertili in giro, lì nasce l’uomo economico.

 

Giusi: - Questa è la visione utilitaristica  dell’agire umano –

 

Bruno : - Questa è una mia constatazione, io non dico però che da qui non si sfugge. Chi ha cercato di elevare l’uomo verso altri fini è statala religione. Siamo portati a calcolare in modo opportunistico ed a rischiare il meno possibile, quella definita la saggezza dei popoli, lo si vede anche dagli stessi proverbi, come “chi lascia la via vecchia per la nuova”... "oppure non svegliare il can che dorme"...., “vivi e lascia vivere”..., è una saggezza utilitaristica.

 

Piero: - Esiste l’antropologia utilitaristica, ma anche quella del dono.

 

Bruno: - Certo, senza una visione anche idealista, senza una spinta utopica che serve ad elevarsi da questa condizione che è vicina a quella animale, l'uomo non è realizzato, dunque io credo che sia necessario superarla questa condizione.

 

Giusi: - Il senso ultimo della vita non può essere ricondotto a questo rapporto sforzo-risultato, se fosse così saremmo solo delle macchine. Ci può essere un agire che nasce dalle passioni, dal credere che il proprio lavoro che può avere un impatto apparentemente minimo, ma che apporta un cambiamento importante, che migliora le condizioni altrui, e tutto questo va molto al di là del procacciarsi da vivere.

 

Bruno: - Chi fa il lavoro di insegnante purtroppo non ha fatto grossi studi sulla psicologia dell’età evolutiva. Non si può pretendere di infondere delle conoscenze negli studenti. Infatti nel percorso delle  SSIS è stato inserita la psicologia, un pò di sociologia, a prescindere dalla materia che si va ad insegnare.

 

Piero: -  Faccio un esempio, quando spiego e uno studente mi fa delle domande perchè non ha capito, non reagisco di malumore, perchè mi scoccia rispiegare, o addirittura gli do del cretino, come capita spesso di sentire. Provo a trovare una nuova formula per farmi capire e spesso mi accorgo che facendo degli esempi pratici la cosa funziona meglio. Questo però mi fa pensare che usare le immagini per definire i concetti è indice che la  loro comprensione è quella di  una generazione che capisce prima le immagini.

 

Bruno: -  L’immagine è un linguaggio elementare. La raffigurazione che racchiude un concetto è un modo diretto per la comprensione.

 

Piero: - Noi più anziani abbiamo ricevuto un’educazione rigida e spesso violenta, ma non riproduciamo gli schemi educativi ricevuti, al contrario ce ne teniamo ben distanti. Ho l’impressione che i nuovi insegnanti, quelli più giovani, per quanto non siano stati vittime di abusi da parte dei loro insegnanti, siano paradossalmente più rigidi di noi anziani, quasi più alienati.

 

Per approfondire le ragioni di questa distanza tra le aspettative, gli investimenti di energie, la formazione personale e la realtà delle condizioni del lavoro d’insegnamento nelle scuole superiori, ritengo utile la redazione di una biografia di formazione. Purtroppo non solo nessuno degli attuali sei membri del gruppo l’ha redatta finora, ma in quest’ultimo incontro Bruno si è apertamente dichiarato contrario a quest’idea della scrittura. Non la ritiene utile e necessaria e non trova nessi tra un lavoro biografico e il tema della laicità.

Ci lasciamo dandoci appuntamento al 17 marzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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